La macchia umana è
il capitolo finale
della Trilogia
Americana, iniziata
nel 1997 con
Pastorale Americana
(che valse il Premio
Pulitzer) e Ho
sposato un
comunista. Non si
tratta di una vera e
propria saga, ma di
tre romanzi, quasi
delle biografie di
tre personalità
raccontate
dall’alter ego di
Philip Roth, cioè
Nathan Zuckerman.
Storia semplice
narrata già nelle
righe iniziali. In
questo libro, molto
più che in altri, P.
Roth attacca il
perbenismo americano
intrecciandolo con
la vita del
professore Coleman.
Il libro è centrato
sulla figura di
Coleman e sulla
macchia che lui ha
sempre pensato di
avere fin dalla
nascita, macchia
che, come in un
racconto circolare,
gli tornerà indietro
sotto forma di
infamia. Tutti i
personaggi del
romanzo sono sia
vittime che
carnefici, ogni
lettore è chiamato a
simpatizzare e a
capire il
personaggio che
davvero ritiene il
"migliore" e non
necessariamente il
protagonista. Non
esiste il
personaggio buono,
ognuno esplica nei
pensieri e nelle
azioni degli sbagli,
difetti che il
lettore potrebbe non
apprezzare. Non ci
sono nemmeno dei
cattivi "puri",
consapevoli di fare
del male per il
desiderio stesso di
farlo. Ogni cattivo
ha una motivazione,
ogni cattivo ha
un'anima, ogni
cattivo pensa di
essere lui il
buono.
Il grande tema è
l’identità, il peso
che ha per noi e per
gli altri. Ma P.
Roth senza fermarsi
a questo, ci parla
anche delle
ripercussioni
psico-fisiche dei
reduci della guerra
nel Vietnam, della
superiorità che
investe chi parte
per cercare lavoro
fuori, e che torna
solo per sentirsi
dire “ce l’hai
fatta!“. Della lotta
al conformismo e
all’aristocrazia
provinciale, della
strada per
l’integrazione
(anche scolastica)
che fino al 1946,
prima dei diritti
civili, risultava
un’utopia.
L'interiorità e i
pensieri dei
personaggi sono un
elemento dominante,
perciò meno adatto a
chi predilige
romanzi con molta
trama e meno momenti
introspettivi. Una
geografia della
‘macchia umana’
presente e da
riconoscere.
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